Difficile descrivere i Tarocchi. Una mantica? Divinazione. Oracolo. Vaticinio?
Mi vengono in mente
queste parole, spesso sparse in modo inappropriato nel curriculum di tante esistenze.
A volte anche magia. Forse i Tarocchi sono anche questo. O forse anche qualcosa
d’altro.
Piscina da Carmagnola nel suo testo sopra riportato (1565) ce li
descrive come un vero percorso «perciochè
chi non sa che dove non è ordine, ivi è confusione?».
Un sentiero da
percorrere per raggiungere l’ordine, ovvero ‘la disposizione di ciascuna cosa
al luogo che le spetta’. Il proprio posto nel mondo. Un mito da scavare.
Radici. O forse di più. Appartenenza e solidarietà. Una filosofia. Di vita.
Dove non importa più sapere quello che sarà. Ma quello che si è. Quello che è
importante ora. Qui è adesso. Né cartomanzia, né tarologia o altro. Solo
Tarocchi. E la loro lettura. Un libro.
E non interessa arrogarsi il diritto (che è
potere) di sapere. Ma un’umile tentativo di parlare e ascoltare quella memoria
antica di un inconscio universale, che dentro di noi può guidarci verso la
nostra casa, il nostro abito. Il nostro habitat.
Ognuno a modo proprio. Ognuno con
i propri mezzi.
Senza la pretesa di essere
depositari della verità o del metodo esatto e unico per acquisirla.
Non esiste un metodo per
conoscere i Tarocchi. Forse esiste un dialogo. Un parlare ed ascoltare.
Un sentire, un percepire. Un
cercare di entrare in questo mondo, con l’innocenza di un bambino curioso che
prova a vivere la vita, senza lasciare che la vita viva per lui.
Sono simboli, ma anche questa
definizione è limitativa. Sono archetipi. Anche si.
Sono una storia, una favola. Un
racconto mitologico finemente disposto come una magnifica cattedrale, dove ogni
pietra non è altro che viva roccia, osso sacro di Madre Terra. Indizio, traccia
e sostegno di ogni costruzione. Pietra d’angolo di un’antica antichità né italiana, né francese, né egizia o altro.
Chiave universale.